TORINO- Leonardo Bonucci, un ragazzo che oltre al calcio, si è dimostrato più volte un uomo coraggioso ed un padre premuroso: il centrale difensivo della Juventus e della Nazionale si è raccontato alla Repubblica.
Questi i passaggi più interessanti dell’intervista: “Ho festeggiato il Natale a Viterbo, casa mia, con tutta la famiglia. Papà dipendente Telecom, mamma contabile in un’azienda di termoidraulica. Il Capodanno sarà a Sestriere con mia moglie Martina e i nostri figli. Lorenzo Filippo che compirà cinque anni a luglio e Matteo Marco, tre il prossimo maggio. Momenti semplici, con un regalo che ci ha fatto qualcuno più grande di noi.”
Ovviamente si parla della guarigione del figlio Matteo: “La fine della paura che è durata da luglio sino a pochi giorni fa. A Matteo ora ripetiamo spesso una sorta di mantra: sei tu il nostro campione, hai vinto la partita più difficile. Gli leggo libri di favole, le storie di Cars. È tornato a giocare con suo fratello, presto potranno anche ricominciare a fare la lotta. Finalmente sta bene fisicamente e psicologicamente”.
“Estate, vacanze a Formentera dopo i campionati europei in Francia. Tre settimane prima a Matteo era stata rimossa una piccola ernia inguinale. Una sciocchezza, eppure abbiamo la sensazione che Matteo sia diventato un bimbo diverso. All’inizio pensiamo che la ragione sia da ricercare in un residuo di anestesia da smaltire, ma poi una serie di suoi comportamenti ci preoccupano. Siamo spaventati. Torniamo immediatamente a Torino, decide mia moglie. All’ospedale pediatrico Regina Margherita troviamo una dottoressa meravigliosa che non perde un minuto. Gli esami diagnostici rivelano una patologia acuta. Bisogna intervenire subito, ci dice il medico. Il giorno successivo Matteo entra in sala operatoria alle otto della mattina e ne esce alle quattro del pomeriggio. Mentre superava le porte della chirurgia Matteo ci ha fatto il verso del leone, come se volesse infondere coraggio più a noi che a sé. Dopo ho raccolto il suo peluche, un orsetto bianco, mi sono seduto in un angolo della stanza e ho fatto una chiacchierata con Dio: sia fatta la tua volontà, gli ho detto, ma non dimenticare che è solo un bambino. Poi sono uscito dall’ospedale e ho trovato ad aspettarmi una trentina di persone, famigliari e amici. Qualcuno aveva chiesto un permesso dal lavoro, altri avevano chiuso il negozio. Per loro, per i miei compagni di squadra, per i tifosi, non soltanto della Juventus, che ci sono stati vicini in questi mesi ho pianto in tv. È stata l’emozione di un grazie. Matteo è tornato a casa il dieci agosto, a tredici giorni dall’intervento. Un recupero record”.
Dopo l’incubo la felicità?
“Non ancora, è cominciata l’attesa dei progressivi miglioramenti, l’ansia di cogliere ogni piccolo passo in avanti, la speranza che il tempo necessario a dissipare i timori scorresse rapido. Abbiamo spiegato la situazione a Lorenzo, abbiamo parlato a lungo e pazientemente con Matteo per renderlo consapevole che era successo qualcosa di molto importante, ma che non doveva avere paura perché sarebbe tornato come prima. In quelle settimane sono stato sfiorato dall’idea di abbandonare il calcio, avevo completamente accantonato l’obbligo di pensare al mio lavoro. Proprio non ci riuscivo”.
Poi parla della moglie e della forza che gli ha tramesso: “Martina mi ha aiutato più di tutti, con la sua determinazione, un’energia che sfiora la testardaggine. Lei mi ha convinto a sposarla, nonostante il nostro amore non fosse stato un colpo di fulmine, lei mi ha dato stabilità, sempre lei mi ha tirato fuori dal pozzo dopo ogni caduta, come quando mi sono trovato, da innocente, sbattuto nell’inchiesta sul calcio scommesse. Martina mi ha insegnato a essere fiero di me stesso nel bene e nel male. E ho capito che nel dolore tutte le famiglie si assomigliano. I privilegi si azzerano nella sventura, se vuoi riemergere devi lottare”
Poi torna a parlare di calcio, con le tre persone più importanti della sua crescita sportiva:
“Carlo Perrone, che mi allenò alla Viterbese. Ero il centravanti e il capitano della squadra Berretti, avevo segnato quattro gol in sette partite, amavo essere decisivo, ma lui mi disse: Leo, devi fare il difensore centrale se ci tieni alla carriera. Cambiai ruolo di malumore, fu la svolta. Alberto Ferrarini, che è stato il mio mental coach: mi ha insegnato ad accettare i giudizi negativi senza più deprimermi e perdere la concentrazione. Antonio Conte, che mi ha trasformato sul piano tecnico e tattico, e ci ha trasformati tutti alla Juve, prendendo una squadra dal settimo posto per portarla a tre scudetti consecutivi”.
Infine una battuta sul possibile addio in direzione Chelsea: “Vorrei diventare una leggenda qui”