Che storia, quella di Marcello Lippi. Tra Scudetti, Champions, Mondiale sono tanti i ricordi del tecnico italiano che, in attesa di tornare su qualche panchina di livello, ha raccontato in un’intervista al Corriere dello Sport quella passione per il calcio nata da piccolo, nella sua Viareggio: “Ho imparato faticando sui campi di sabbia o di aghi di pini – racconta Lippi nel corso di un’intervista concessa al Corriere dello Sport – penso che così si diventa calciatori o semplicemente ci si diverte, non certo facendo un’ora a settimana di scuola calcio. A Viareggio abitavamo vicino agli alberghi dove risiedevano le squadre del torneo. Li asfissiavamo con le nostre richieste di avere qualcosa. Alla fine ci regalarono due magliette. I nostri genitori fecero una colletta per acquistare le altre e così la nostra squadra ebbe la sua prima casacca. Rossonera. Papà è morto nel 1991, ha fatto in tempo a vedermi allenare in serie A, col Cesena. Era orgoglioso e io sono felice di avergli dato almeno questa soddisfazione. Mamma invece se ne è andata nel marzo del 2006. Tre mesi ancora e avrebbe visto suo figlio campione del mondo. Sarebbe stata felice”.
Il passaggio alla Sampdoria, giovanissimo: “Non andavo più a scuola, non mi piaceva e per usare un eufemismo non andavo benissimo. Così mio padre mi mise a lavorare in un laboratorio di impianti elettrici. Io mi assentavo spesso, di nascosto, per fare i provini con le squadre maggiori. Un giorno scappai per andare a Genova dove la Samp cercava giovani talenti. Mi presero. Quando tornai il ragioniere mi licenziò, ma io avevo firmato con i blucerchiati e non mi dannai l’anima. Mi volevano anche Fiorentina e Milan, ma io avevo dato la parola. Ero un centrocampista forte tecnicamente e fisicamente, forse un po’ lento. Ma il primo anno negli allievi feci 30 gol, come il mitico Angelillo. Poi Comini Cherubino mi trasformò in libero, ma la scelta definitiva arrivò con Fulvio Bernardini. Mi fece esordire a Cagliari nel settembre del 1970: erano campioni d’Italia e molti di loro erano reduci dal mondiale in Messico. Per di più quel giorno inaugurarono il Sant’Elia. Se voleva che fossi emozionato ci riuscì”.
Su Heriberto Herrera: “Non era molto amato, era difficile da capire. Lui che era un sergente sul mangiare ogni tanto portava tutti gli scapoli a pranzo. E ci abboffava, riempendoci il piatto e il bicchiere, ma se il giorno dopo pesavi tre etti in più ti faceva fare chilometri di corsa. Cristin, il nostro centravanti, dopo quei pranzi prendeva i lassativi per evitare fatiche supplementari. Non un bel clima”. A 25 anni la decisione di allenare: “E’ una storia un po’ strana, l’ho deciso nel pieno della mia attività da calciatore. Mi iscrissi a 25 anni al primo corso, quello al quale i giocatori in attività erano ammessi. Presi il diploma. Poi mi chiamò Mantovani, allora presidente della Samp e mi disse che il nuovo allenatore non voleva più usare il libero. Lui che era un vero signore mi garantì che mi avrebbe ceduto anche a cento lire alla squadra che io avrei scelto per concludere la carriera e poi che mi avrebbe trovato una collocazione in società. Scelsi la Pistoiese. Quando tornai da Mantovani mi affidò la Primavera. La guidai per tre anni, ma avevo bisogno di altro”.
In A grandi stagioni con Atalanta e Napoli: “A Bergamo il presidente non mi volle rinnovare il contratto, prendeva tempo e io non capivo perché, dopo una stagione straordinaria. Mi cercò Bianchi, direttore sportivo del Napoli, e accettai. Ho un ricordo meraviglioso di quell’anno, si stabilì subito un rapporto speciale con la città. La società non pagò gli stipendi ai giocatori per mesi e io dovevo tranquillizzare i ragazzi. Io al San Paolo ho lasciato un pezzo di cuore, ma a Napoli non c’erano certezze e decisi di andare alla Juve. La città si dispiacque ma capì”. Capitolo Juventus: “Uno dei giocatori simbolo era Vialli. Quando arrivai mi disse che voleva parlarmi da solo. Fissammo un appuntamento, voleva chiedermi di lasciarlo tornare alla Samp. Gli dissi se era scemo: come potevo far andare via il più forte centravanti italiano? Un ragazzo di grande intelligenza e senso dell’umorismo. Roberto Baggio? Coesistevano lui e Del Piero, due fuoriclasse. La società a fine stagione fece una scelta e offrì a Baggio un contratto al di sotto delle sue aspettative. Lui andò al Milan. L’emozione più grande in bianconero rimane il primo scudetto. Un sapore nuovo, sconosciuto. La più grande delusione la finale di Champions persa ai rigori contro il Milan: con Nedved in campo sarebbe andata diversamente”.
Nel 2006 un mondiale capolavoro: “Capii che potevamo vincere quando battemmo Olanda e Germania nelle due amichevoli prima del mondiale. Quando esplose calciopoli la squadra si caricò della sua stessa forza, non avevamo paura di nulla. La grande partita fu quella con la Germania, nel loro stadio, con settantamila tedeschi e cinquemila italiani. I gol di Grosso e Del Piero, due capolavori. Ero sicuro che avremmo vinto con la Francia e così è stato. E’ stata la gioia più grande della mia carriera”.
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