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Giovinco si racconta: “Ho continuato a seguire la Juve, quando arrivai…”

Una vita nelle giovanili bianconere e poi sei stagioni con la Juventus prima di volare in Canada. Sebastian Giovinco si è raccontato in un’intervista concessa al sito ufficiale bianconero.

“Ricordo i primi passi alla Juve. Giocavo in una piccola squadra in periferia e il sogno era quello di tutti: approdare in una grande squadra. Figurarsi che emozione arrivare lì! Eppure, all’inizio non ero pienamente convinto, non volevo lasciare i miei vecchi amici, quelli con cui giocavo da sempre. Il primo impatto non è stato facile, diciamo che non è stato un inizio da favola, sembrava tutto troppo grande. Ma ho tenuto duro, imparando a adattarmi, cosa che nella vita poi mi è tornata estremamente utile, e ovviamente l’ho fatto grazie alla mia famiglia.

La famiglia è stata fondamentale per me e non ha mai smesso di sostenermi: quanti sacrifici hanno fatto! So che sono sacrifici che chiunque abbia un figlio o una figlia con il mio stesso sogno conosce bene. Mio papà Giovanni faceva chilometri per accompagnarmi, usciva prima da lavoro, e doveva anche dividersi tra me e mio fratello, dato che avevamo orari diversi. Loro ci sono stati anche nei momenti più difficili. Quei momenti fanno parte della crescita, ma solo una volta ho pianto da bambino, non ricordo nemmeno più il motivo, forse perché non avevo giocato qualche partita, e anche lì sono stati loro a darmi la forza per non mollare.

È quello che cerco di fare anche io con mio figlio Jacopo. Anche lui gioca a calcio, qui a Toronto, e voglio che sia consapevole del valore delle cose e che non pensi mai che qualcosa sia scontato solo per il cognome. Ora gioca nella squadra B della Academy, perché per stare nella squadra A ha bisogno di lavorare di più. Lui è intelligente, capisce, si sforza per provare a migliorare e soprattutto si diverte. Questo mi rende felice.

Torniamo alla Juve, che è stato il passaggio chiave della mia carriera. Il mio percorso è noto, passando dalla Primavera fino alla Prima Squadra. La prima volta che ci arrivai era la Juve di Capello, una Juve fortissima. Ti allenavi con loro e ovunque ti voltassi c’era un campione. Ricordo Ibra che massacrava tutti, faceva battute e stuzzicava in continuazione. Una volta, era una delle prime, passò accanto a me e mi disse “You’re a stupid boy”. Rimasi un attimo stupito. Stupido? Perché? Non avevo fatto niente. Non ho detto niente e ho continuato ad allenarmi, poi, conoscendo il personaggio, ho capito. Era il suo modo di testarmi, voleva vedere come reagivo alla pressione. Se uno si buttava giù e rimuginava, evidentemente, non era pronto, mentre se uno riusciva a farsi scivolare tutto addosso poteva anche reggere la pressione di stadi e avversari.

Quell’insegnamento, insieme a tutti quelli che ho imparato alla Juve, li ho portati con me ovunque. Se ci penso, ho speso alla Juve praticamente la metà della mia vita, e lì non impari solo il calcio. Anche qui non posso dimenticare il supporto della mia famiglia, lo ripeto a costo di sembrare noioso, ma devo tutto a loro. Poi, però, quando la famiglia non c’era, dovevi stare in linea con la squadra e con le regole della società. Impari l’importanza del rispetto a tutti i livelli, la puntualità, la precisione, la cultura del lavoro. Senza queste cose non sarei riuscito a fare niente di quello che ho fatto dopo.

Anche perché il primo salto con i grandi è stato difficile. Magari qualcuno non sente tanto la differenza, io l’ho sentita. A livello di ritmi e di fisicità soprattutto. A me, tra l’altro, in tanti hanno detto spesso che ero troppo piccolo per raggiungere certi palcoscenici. Me ne sono semplicemente fregato, mi sono fatto scivolare addosso i dubbi degli altri. Penso sia importantissimo non permettere agli altri di farci perdere la fiducia in noi stessi e la voglia di arrivare. Io, quel salto, sono riuscito a farlo. Ho sopperito con l’intelligenza in campo, provando a leggere le situazioni in anticipo, puntando sulle mie qualità. E alla fine, con la Juve, ho coronato il sogno di tantissimi: vincere lo scudetto. È stato speciale e non troverei le parole per descriverlo.

Prima c’era stato il prestito. Ho vissuto l’esperienza come una sfida, non come una bocciatura. Tra l’altro in tanti andavano a giocare nelle serie minori, io ero andato in prestito in Serie A. La società voleva vedere dove potessi arrivare e, in fondo, volevo vederlo anche io. È stata l’occasione perfetta per capirlo. Ho fatto le mie esperienze, anche i miei sbagli, sicuramente ho dimostrato qualcosa e sono cresciuto. Quando poi Conte mi ha richiamato non potevo dire no. Mi voleva fortemente e io ho fatto tutto quello che potevo per ripagare quella fiducia. Alla Juve, poi, non c’è tempo per pensare, si deve solo lavorare. Ogni giorno devi fare meglio di quello precedente, l’ambiente ti porta ad alzare continuamente l’asticella. Il Mister ti spingeva a farlo al massimo.

Dopo c’è stato il cambio radicale, mi sono buttato di fatto in un altro mondo. Ogni volta che si parla del mio trasferimento in Canada la prima cosa che si cita sono i soldi. Lo capisco, ma un po’ mi dispiace, perché c’è molto altro dietro. È stata una scelta che si incastrava perfettamente col mio modo di vivere e di pensare. E posso dire, con orgoglio, che, a livello calcistico, il Canada che ho lasciato poi per trasferirmi in Arabia Saudita era molto diverso da quello che ho trovato quando sono arrivato. Cresciuto, evoluto, migliorato.

Quando sono atterrato a Toronto, la squadra non arrivava alle finali da 10 anni e allo stadio andavano circa 10.000 persone. Dopo sei mesi, erano 15.000, poi sono arrivati a 25.000. Il secondo anno hanno modificato l’impianto: 32.000 posti. Mi sento di dire che è cambiata la prospettiva del gioco, la società è passata da valere 30 milioni a valerne 350. È stato un onore far parte di qualcosa di simile.

Al di là dei risultati raggiunti, in Canada mi ha stupito tanto la differenza di cultura sportiva. In Italia si vive solo per la competizione, l’errore non viene mai perdonato, qui invece ti lasciano sbagliare e il calcio è visto maggiormente come un gioco. Diciamo che sono due estremi e cercare di avvicinarli è uno dei motivi che mi ha spinto a voler intraprendere l’avventura con la Juventus Academy Toronto. Prima di parlarne, però, c’è un’altra tappa che mi ha permesso di arrivare con consapevolezza a questa fase della mia vita: l’Arabia Saudita.

Lì ho capito, ancora di più, quanto il calcio ormai sia una questione globale. Dico una cosa che suona scontata, ma che chi ha vissuto certe esperienze sa essere verissima: non esistono più le partite facili e i campionati di basso livello. La cosa è tornata d’attualità in questi giorni per la scelta di Cristiano Ronaldo. Anche in questo caso si parla soprattutto dell’aspetto economico, ma quando poi sei lì scopri che il campionato è competitivo e niente è scontato. L’ha dimostrato anche il Mondiale, l’Arabia Saudita è stata l’unica a battere l’Argentina poi diventata campione del mondo. Lì devi cambiare vita, cambiare abitudini, anche nelle cose più semplici. Ad esempio, per una vita mi sono allenato al mattino, lì ci si allena la sera perché fa troppo caldo. Sono cose piccole, ma diventa fondamentale adattarsi, e ogni giorno è un insegnamento.

In questi giri per il mondo, ovviamente, ho continuato a seguire la Juve. Senza ossessione, senza rimpianti, tifando per i miei ex compagni. Dico senza rimpianti perché ero convinto delle mie scelte. Forse l’unico rimpianto in assoluto è stato perdere la Nazionale, fossi rimasto in Europa magari sarebbe andata diversamente, ma è andata così. La Juve l’ho rincontrata in Canada, era un’esibizione, ed è stato bello rivederla, poi l’ho affrontata da avversario con la maglia della Sampdoria, anche se devo dire che speravo che il mio ritorno all’Allianz Stadium fosse diverso. Ho giocato contro la Juve la mia unica partita in blucerchiato, ho giocato da infortunato, praticamente su una gamba sola, ma ci tenevo a esserci per la Samp. Mi sono fatto male il primo giorno con loro, ho provato a forzare per ripagare la fiducia, ma avrei dovuto darmi più tempo per entrare bene in condizione invece di partire a mille per onorare il mio senso del dovere.

Dopo quell’esperienza ho riflettuto e fatto la mia scelta. La Juventus Academy Toronto unisce quello che sono e quello che amo. Io mi sento un ragazzo della gente, amo parlare, lavorare, dare consigli e imparare dalle persone. Farlo con i ragazzi, portando la metodologia della Juve e provando a unire la cultura sportiva italiana con quella canadese è una splendida sfida. Quando per tutta la vita giochi a calcio diventa importante sapersi reinventare e l’avventura con l’Academy è perfetta. Abbiamo grandi progetti e ovviamente la crescita dei ragazzi è la cosa più importante. C’è già un esempio di una ragazza che da qui è arrivata a vestire la maglia della Juve, Irina Talle. Quando vedi risultati del genere non puoi che essere orgoglioso.

Ora lavoriamo per loro e, dopo aver portato con me gli insegnamenti della Juve in giro per il mondo, ora provo a trasmetterli qui”.

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