TORINO – Marcello Lippi, ex allenatore della Nazionale, ha parlato ai microfoni de La Gazzetta dello Sport di vari temi tra cui l’emergenza coronavirus e la voglia di tornare ad allenare. Di seguito riportiamo le sue parole.
Lei è nato nel ‘47, all’indomani della Seconda guerra mondiale. C’è qualche parallelo con quanto sta succedendo adesso?
“Quello che mi hanno raccontato genitori e nonni. L’aiuto dell’America. Roosevelt e Truman. La fame. I bombardamenti e la resistenza alla quale la mia famiglia aveva partecipato. E poi la ripartenza. Una parola che usiamo spesso nel calcio, al posto di contropiede, ma qui è molto più appropriata. Ripartire. Recuperare la voglia di vivere. Come in Versilia dove la gente cercava di dimenticare per tornare felice. E il boom economico. Momenti che ricordo bene. Ma il nemico è ancora lì, il pericolo non è scongiurato”.
Vedremo diversamente la vita, e il calcio, dopo?
“Probabile. Ma non parlo solo di incazzature per una sconfitta. Spero che, chi decide, stia pensando al calcio dilettantistico che rischia di scomparire. Spero lo protegga. Quello d’élite ne uscirà sicuramente ridimensionato, ma tutto sommato non sarebbe neanche un male”.
Ridimensionati anche i giocatori?
“Sì. E accetteranno. Si è portati a credere che siano tutti viziati e ricchi, che pensino solo a soldi, macchine, belle donne. Demagogia. Ci sono quelli così come in tutte le categorie. Ma poche hanno la stessa sensibilità sociale dei calciatori. Sa una cosa che odio?”.
Cosa?
“Chi fa beneficenza e lo comunica subito ai giornali. I calciatori la fanno in silenzio. E non soltanto se regalano soldi a chi ne ha bisogno. Anche se dedicano un pomeriggio a bambini autistici o disabili, offrendo il loro tempo e il loro sorriso”.
Come passa le sue giornate?
“Come tutti. Con la fortuna di avere un giardino sotto casa. Quindi dedico la mattina a camminate, circuiti, pesi, ginnastica. Sono tornato a essere regolare. Mangio a casa, qualcosa di semplice, e nel pomeriggio vedo la tv. Oppure mi dedico a rileggere un po’ il mio passato”.
Prego?
“Le rivelo una cosa. Fin dal primo giorno, dalla Primavera della Samp, ho un’abitudine: scrivere tutti miei allenamenti. Ma proprio tutti. Alcuni li rimettevo in bella, se ce n’era bisogno. Ho cominciato quarant’anni fa esatti e in questi giorni ho ripreso in mano quei fogli. Divertendomi a vedere come affrontavo le problematiche allora. Quei principi sono applicabili anche ora”.
Ahi ahi… che nostalgia. Voglia di tornare in panchina?
(sorride) “Chissà, per ora mi aiuta a passare il tempo…”.
Mario Sconcerti ha scritto pochi giorni fa sul Corsera che il Mondiale 2006 è il successo del calcio all’italiana…
“Ma certo! Ed è un complimento. All’italiana non significa tutti in difesa, ma esaltare le qualità difensive della nostra tradizione. Tutto si può dire della mia Nazionale, non che fosse difensivista. Quasi sempre con tre attaccanti e, in semifinale con la Germania, nei supplementari con quattro punte. Attaccando a velocità impressionante”.
Lei quando ripartirebbe con il calcio?
“Soltanto quando saremo a contagi zero. Non importa se a porte aperte o chiuse: non è questo il problema. Il problema è che impossibile non succeda qualcosa se una squadra, una cinquantina di persone in tutto, viaggia e incontra camerieri, cuochi, autisti… Solo quando questa guerra sarà vinta dovremo ripartire. E dalla 26ª giornata. Niente play-off o altre formule, per carità. Dodici giornate. Campionato e coppe: non si comincia la nuova stagione prima di aver finito questa. La prossima partirà più tardi, avrà qualche turno infrasettimanale. Non importa. E non è soltanto questione di campo…”.
Perché?
“S’immagina che cosa accadrebbe con un’assegnazione straordinaria? Tra reclami, ricorsi, avvocati, tribunali… non ne usciremmo più”.
Permette almeno una domanda sulla Nazionale?
“Certo. Mi spiace per l’Europeo saltato, ma l’Italia è così forte che farà benissimo anche nel 2021. E aggiungo, con la passione con cui un nonno può seguire il nipote: recupererà giocatori importanti come Zaniolo. Magari per Mancini potrebbe essere quello che è stato per noi Totti.”
Suo nipote Lorenzo ha solo un anno in meno.
“In questi giorni ha rivisto un po’ di vecchie interviste che passano in tv. C’è lui bambino, piccolissimo, in braccio a me, e indossa la maglia della Juve: lo portavo per evitare che mi facessero i gavettoni dopo lo scudetto. Aveva dimenticato questi episodi. Adesso tifa Roma, perché a Roma gli hanno fatto cambiare idea, ma gli ho ricordato che allora mi diceva sempre “uve, uve“…”.
Poi avrà urlato “Italia, Italia” per un Mondiale vinto dal nonno contro tutto e tutti, nel momento più difficile.
“Come nell’82: una situazione dalla quale siamo venuti fuori trasformando il gran casino in energia positiva. Perché c’erano persone di grandi qualità umane e professionali, gente con due palle così, in grande sintonia con chi le guidava. Non hanno vinto perché erano in emergenza, ma perché erano forti. Quella dell’82 era una squadra tecnicamente eccelsa. Noi abbiamo acquistato la consapevolezza della nostra forza. Avevo detto ai giocatori e alla federazione: “Guardate che questo Mondiale dobbiamo vincerlo. Abbiamo tutto per farlo”. E quindi chiesi le famose amichevoli contro il Brasile, ma era troppo caro, la Germania e l’Olanda. Ripenso ancora alla notte di Amsterdam…”.
Cosa accadde?
“Loro a casa non perdevano mai, noi andammo a vincere 3-1 e, nei corridoi dello stadio, passando tra le foto di Cruijff e Neeskens, con tutto il rispetto, Gattuso urlava “ma dove cazzo volete andare…”. La sera del 4-1 alla Germania il povero Schumacher venne negli spogliatoi di Firenze per complimentarsi e lo presero in giro. Sì, eravamo forti. Lo siamo anche oggi e spero accada lo stesso anche al di fuori del calcio”.
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