TORINO – C’è un’intera generazione di tifosi bianconeri che lo sono diventati per merito di Roberto Bettega. Indagare sulle motivazioni della passione è sempre un tema affascinante, anche perché quando si ha a che fare con straordinari campioni non c’è mai una sola ragione o una sola vittoria a spiegare un “innamoramento” calcistico, la sua nascita e la sua durata nel tempo. Nel caso di Bobby-gol si rintracciano innumerevoli fattori a partire dai suoi tanti gol, connessi a un coefficiente elevatissimo di bellezza. Ma ha altrettanto valore quell’esempio di enorme forza espressa in gioventù: quella che lo porta a segnare subito in Serie al suo esordio e a farlo di testa, la sua specialità; e, ancor più, quella che lo porta a rinascere dopo una malattia polmonare che lo blocca nella sua seconda stagione in bianconero quando ha uno score semplicemente fantastico: 15 reti in 23 partite, non male per un ragazzo di 21 anni. E poi, non si può dimenticare l’evoluzione del suo gioco, quel diventare un attaccante che fuori area esprime una raffinatezza e un’eleganza inimitabile, pur continuando a vedere la porta, tanto da conquistare il titolo di capocannoniere nel 1979-80, per di più in un campionato non vincente per la Signora. Spesso si è parlato nel passato di Bettega anche per uno spiccato senso della misura, una rappresentazione perfetta dello stile Juve nella sua versione più torinese: mai una dichiarazione eccessiva, sia da calciatore che da dirigente nella fase successiva e non meno bianconera della sua vita. Però, un’eccezione c’era: ed era la felicità espressa quando Roberto diventava Bobby-gol. Spesso, in quei casi, lo si è visto andare a prendere il pallone in fondo alla rete, per poi calciarlo via, lontano. Non era una firma sull’esultanza, com’è tipico dei calciatori di oggi. Piuttosto, era il recupero di un istinto risalente all’infanzia, quando il bambino sognava in grande a bordo campo, mentre osservava i suoi idoli da vicino, Omar Sivori su tutti.
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